domenica 14 novembre 2010

MTWO, UNA NUOVA CONFERMA: COMPROVATA LA MASSIMA RESISTENZA ALLA FATICA DEL SISTEMA ENDODONTICO PIU' USATO IN ITALIA

Un ulteriore studio comprova la flessibilità degli strumenti Mtwo nonché la resistenza alla frattura dovuta ad accumulo di fatica del nichel-titanio. La flessibilità degli Mtwo è determinata prevalentemente dal disegno degli strumenti. La sezione ad “S italica” con la presenza di sole due lame determina che il corpo di questi strumenti contenga una quantità di metallo inferiore ad altri strumenti disegnati con sezioni a 3 o più lame di taglio; questa caratteristica rende gli strumenti Mtwo molto “snelli” e di conseguenza ne esalta la flessibilità e la resistenza alla fatica ciclica.

Lo studio dimostra che la resistenza a fatica dello strumento Mtwo 25/.06 in curvature apicali molto severe (angolo 90° e raggio 2mm) è statisticamente maggiore rispetto alla resistenza degli strumenti ProFile-Tulsa, ProFile-Maillefer, FlexMaster 25/.06 -VDW e ProTaper F2-Maillefer. Si può evincere da questo studio che l’utilizzo di questo strumento Mtwo garantisca una maggior sicurezza in questo tipo di anatomie.

Le caratteristiche degli strumenti al nichel-titanio permettono oggi di raggiungere l’apice e mantenerne la posizione originaria anche in anatomie che in precedenza sembravano impossibili da trattare con l’utilizzo dell’acciaio. La presenza di brusche curvature apicali è stata definita classicamente come una controindicazione all’utilizzo degli strumenti in nichel-titanio in rotazione continua, dato l’elevato rischio di frattura in questo tipo di anatomie, soprattutto per gli strumenti più grandi. Spesso si ha l’opportunità di diagnosticare radiograficamente queste brusche curvature apicali, ma purtroppo altrettanto spesso esse sono presenti in una proiezione non visibile dalla radiografia; per questo motivo l’utilizzo di strumenti che possano affrontare con maggiore sicurezza anche questo tipo di anatomie permette di effettuare trattamenti con minor rischio di errori iatrogeni.

Pubblicato su International Endodontic Journal, gennaio 2010, un recente studio di Plotino G, Grande NM, Melo MC, Bahia MG, Testarelli L, Gambarini G.
Int Endod J. 2010 Mar;43(3):226-30.

lunedì 2 agosto 2010

Diagnosi differenziale dei dolori dentali e oro-facciali

Nel gruppo dei dolori da patologie dentali si distinguono principalmente:
 
1) l'ipersensibilità dentinale,
2) la sindrome del dente incrinato,
3) i dolori da patologia pulpare,
4) i dolori da patologia periapicale;
5) i dolori da patologia parodontale.

Per comprendere le caratteristiche dei singoli quadri clinici e per orientarsi nella diagnosi differenziale, si deve sapere che la polpa possiede essenzialmente due tipi di fibre nervose. Uno è rappresentato dalle fibre A-δ, mieliniche, abbastanza grosse, con alta velocità di conduzione, che sono devolute in parte alla sensibilità dolorifica, peculiarmente alla sensibilità termica e tattile. Sono ubicate soprattutto alla periferia della polpa, particolarmente nelle zone dei cornetti e del tetto pulpari, mentre tendono a diminuire di numero, fin quasi a sparire, man mano che si procede apicalmente verso la zona del colletto. L'altro tipo è costituito dalle fibre C, nocicettive, amieliniche, essenzialmente dolorifiche, situate eminentemente al centro della polpa.   

Alcune caratteristiche di queste fibre aiutano nel porre meglio le diagnosi differenziali: le fibre mieliniche, periferiche sono più sensibili agli stimoli termici, sia al freddo che al caldo, quelle all'interno della polpa sono sensibili solamente (o quasi) al caldo. Le fibre più periferiche non tendono a dare dolore irradiato, cioè forniscono una sensazione dolorifica esattamente riferita alla zona dove vengono stimolate, mentre le fibre amieliniche possono dare molto spesso dolore irradiato. L'aumento della pressione pulpare, l'ipossia e l'infiammazione sono in condizione di attivare le fibre amieliniche, mentre le fibre mieliniche non sono sensibili o lo sono scarsamente a questi fenomeni. Quindi le fibre amieliniche sono coinvolte nei dolori che si avvertono quando c'è una compromissione, spesso irreversibile, della polpa. Si inquadrano ora questi concetti nelle cinque evenienze dolorifiche elencate sopra.

Ipersensibilità dentinale
 
Per ipersensibilità dentinale si intende una breve e violenta reazione dolorosa, provocata o in certi momenti spontanea, che parte dalla dentina esposta, scatenata da stimoli termici, meccanici e chimico-osmotici. Le teorie proposte per spiegare questa sensibilità aberrante sono tre. La prima, teoria nervosa, presuppone che le fibre nervose penetrino nei tubuli dentinali e quindi vengano stimolate direttamente o indirettamente tramite il fluido che riempie il lume tubulare. E' un'ipotesi ben suffragata da prove morfologiche: a livello dei cornetti e della camera pulpari la percentuale dei tubuli direttamente innervati ammonta al 45% del totale, mentre verso il colletto scende all'1,3%, nella radice poi addirittura allo 0,1% - 0,01%. Questo meccanismo spiegherebbe quindi soltanto la sensibilità legata alla metà coronale della camera pulpare.

La seconda, ipotesi odontoblastica, suppone che l'odontoblasta sia inteso come recettore, in contatto, mediante una sinapsi, con la fibra nervosa sensitiva. E' l'ipotesi più debole perché un recettore è una cellula che risponde in maniera violentissima a stimoli deboli,al contrario l'odontoblasta risponde molto lentamente a stimoli intensi.

Riguardo alla terza ipotesi, quella idrodinamica, secondo Gysi che la descrisse nel 1901, le fibre nervose contrarrebbero rapporto solo con il polo caudale dell'odontoblasta e verrebbero stimolate dagli spostamenti dell'odontoblasta che verrebbe stirato nel tubulo o schiacciato verso il centro della polpa, a seconda dei vari stimoli sulla dentina esposta. E' un'ipotesi suggestiva, però ha scarso supporto morfologico perché non spiega l'ipersensibilità, ad esempio al colletto o alla radice, dove gli odontoblasti sono praticamente privi di fibre sensitive poiché in queste zone non è presente il plesso di Raschkoff (che termina come visto a metà della corona).

Sono state avanzate altre teorie, quale quella dell'infiammazione neurogena, ma a tutt'oggi non sono disponibili ipotesi alternative, scientificamente dimostrate, circa l'ipersensibilità dentinale. Questa sindrome si instaura in presenza di dentina esposta (specialmente nell'area cervicale) per usura, abrasione, erosione, per difetti dello smalto oppure per cause iatrogene, quali procedure conservative, protesiche, parodontali, ortodontiche, chirurgiche ecc. L'odontoiatra deve essere in condizione di distinguere una ipersensibilità dentinale da uno stato pulpitico, anche perché molte volte le pulpiti esordiscono con sintomi di ipersensibilità. La sindrome da ipersensibilità dentinale è transitoria, alterna periodi di acuzie a periodi di quiescenza. Una conferma diagnostica si può avere (a prescindere da quale sia il meccanismo patogenetico) ripristinando la chiusura dei tubuli verso l'esterno con l'applicazione in studio di sealant, ossalati ecc., oppure mediante terapia domiciliare con fluoruri o altro: i sintomi cessano o diminuiscono in modo rilevante. Non è presente nessun segno radiografico.

Nel corso degli ultimi 150 anni si è impiegato un numero sterminato di sussidi per cercare di far fronte alla ipersensibilità dentinale: ciò significa che la patogenesi di questa sindrome è ancora tutta da scoprirsi al pari della sua specifica terapia.

La terapia è sintomatica, ha lo scopo, non sempre raggiungibile, di eliminare il sintomo principale che è il dolore, mediante l'occlusione dei tubuli. Ovviamente il carattere acuto, localizzato e transitorio del dolore indica chiaramente che esso è mediato dalle fibre A-δ. Se dopo la rimozione dello stimolo rimane il dolore o se questo insorge spontaneamente, significa che sono attive le fibre C, al centro della polpa e che è già in atto un danno pulpare.

domenica 23 maggio 2010

Il ruolo dell'adesione

I restauri sia conservativi sia protesici possono avvantaggiarsi delle moderne tecniche adesive in tre aspetti importanti per il clinico.

1. La funzione, perché una forte adesione del restauro può ripristinare le caratteristiche biomeccaniche originali della struttura dentale, indebolita a opera delle lesioni (carie o frattura) e della preparazione stessa (della cavità o del moncone).

2. La conservazione, perché la possibilità di far aderire i restauri consente di ridurre o eliminare l’asportazione a fini ritentivi di tessuto duro sano.

3. L’estetica, perché le procedure adesive permettono di utilizzare materiali privi di core metallico e pertanto dotati di più favorevole rapporto con la luce.
In una relazione eminentemente clinica conviene limitarsi a pochi aspetti fondamentali della classificazione e del meccanismo d’azione degli adesivi.

L’adesione può essere (A) di tipo chimico, in cui sono in gioco forze primarie, come quelle fornite da legami covalenti o ionici, e/o forze secondarie quali interazioni fra dipoli (ponti idrogeno, forze di Van der Waals) fra atomi e molecole dell’aderente e quelle del substrato; (B) di tipo micromeccanico, che sfrutta interdigitazioni resinose solide all’interno delle rugosità di superficie del substrato.

Al primo tipo di adesione si affidano tradizionalmente i materiali vetroionomerici, al secondo quelli resinosi compositi, con la precisazione che i moderni sistemi self-etching a 2 passaggi possono sfruttare anche il primo, grazie all’interazione chimica fra monomeri funzionali specifici e l’idrossiapatite residua presente nello strato ibrido.

Secondo una classificazione accreditata dalla letteratura internazionale gli adesivi attualmente presenti sul mercato si distinguono in a. di IV, V, VI e VII generazione.

Alla IV appartengono gli adesivi etch-rinse, che prevedono cioè la mordenzatura con acido (etch) e il risciacquo (rinse), finalizzati a rimuovere il fango dentinale e l’idrossiapatite dello strato superficiale della dentina; la dentina deve essere lasciata umida (wet bonding) onde evitare il collasso delle fibre collagene private del sostegno minerale; segue l’applicazione di un primer (soluzione acquosa o alcoolica, più raramente acetonica) e quindi di un bonding (resina fluida idrofoba).

La V rappresenta una semplificazione della IV in quanto primer e bonding sono presenti in un’unica soluzione.

Al successo di mercato non è corrisposta una performance di laboratorio e clinica dello stesso livello dei precedenti.

La VI generazione vede l’abbandono della mordenzatura separata con acido: è il primer (dotato di un pH più o meno basso) a svolgere l’azione condizionante sul substrato, nel quale il fango dentinale viene inglobato dalla resina e la dentina subisce una dissoluzione dell’idrossiapatite meno profonda e completa di quella operata dagli etch-rinse. Di qui il minor spessore dello strato ibrido e la possibilità di un legame chimico fra il calcio del minerale conservato e gruppi funzionali (per lo più fosfatici) presenti in alcuni monomeri resinosi deputati a questo.

Nella VII generazione si raggiunge la massima semplificazione riunendo in unica boccetta primer auto condizionante e bonding (all-in-one).
Volendo sintetizzare la vastissima letteratura sui diversi sistemi adesivi si può dire che quelli di IV generazione rappresentano a tutt’oggi il gold standard in termini di forza di adesione misurata in vitro e di performance clinica; al loro livello si avvicinano soltanto quelli di VI generazione, a patto che si migliori l’adesione allo smalto con la mordenzatura separata con acido ortofosforico.

Lo svantaggio di tale passaggio aggiuntivo è compensato da un minor rischio di sensibilità post-operatoria.

Un altro dato unanimemente riportato riguarda il ruolo preminente giocato dall’operatore nel determinare il livello di performance adesiva.
Agli adesivi di VII generazione, al di là dell’appeal esercitato dalla novità e semplicità, si riconosce quasi unanimemente un’affidabilità inferiore a quelli delle altre tre.
Nell’ambito degli studi orientati a superare il problema della diminuzione dell’adesione nel tempo per l’azione di fattori esterni, quali l’idrolisi indotta dall’ambiente orale e gli stress da carico funzionale, si è evidenziato il ruolo negativo svolto anche da fattori interni quali la degradazione del collagene dello strato ibrido da parte delle metallo-proteinasi presenti nella dentina. La verifica del potere inibente esercitato dalla clorexidina (CLX) su tali enzimi ha portato alla validazione di un passaggio ulteriore: dopo la mordenzatura l’applicazione per 30 secondi di una soluzione acquosa diluita (0.2 - 2%) di CLX.

Vale la pena ricordare il ruolo negativo che possono svolgere sull’adesione le procedure di sbiancamento chimico (mediante perossido di idrogeno o derivati), per cui si consiglia di attendere un periodo di almeno 15 giorni dopo l’ultima applicazione sbiancante prima di eseguire restauri adesivi.

Sintesi della relazione tenuta da Federico Ferraris al 51° Congresso degli Amici di Brugg di Rimini

sabato 6 marzo 2010

Chewing-Gum allo Xilitolo: qual'è l'effetto sui nostri denti...?

La salute orale riveste un’importanza fondamentale per il mantenimento del benessere sia fisico che psicologico dell’individuo. Nonostante i notevoli progressi scientifici, la carie dentale e la malattia parodontale rappresentano ancora un problema sanitarìo in molti paesi industrializzati e sono destinati ad aumentare nei paesi in via di sviluppo. Seguire una corretta ed adeguata igiene orale ed avere un’alimentazione ricca in fibre e povera dì zuccheri semplici sono i metodi migliori per proteggere la salute dei nostri denti.


Un ulteriore aiuto per la cura e il mantenimento dell’igiene orale, nelle situazioni in cui non è possìbile utilizzare i tradizionali strumenti di pulizia, viene dal chewing gum. La masticazione dei chewing gum svolge un valido effetto detergente attraverso l’azione meccanica di rimozione dei residui di cibo, alla quale si somma la contemporanea stimolazione della salivazione.

A rendere il chewing gum uno strumento ancora più efficace per l’igiene orale è la presenza dello xilitolo, un edulcorante naturale ipocalorico dotato dello stesso potere dolcificante dello zucchero; lo xilitolo ha la peculiarità dì non essere fermentato dai batteri della cavità orale e quindi di non consentire la formazione degli acidi che demineralizzano lo smalto dentale; la sua attività principale risiede nell’effetto inibitorio dello Streptococcus Mutans, il più importante organismo responsabile della formazione della carie.

Numerosi studi clinici hanno dimostrato che il consumo di chewing gum allo xilitolo per lunghi periodi si associa ad una significativa diminuzione della crescita e dell’adesività della placca batterica comportando quindi una riduzione dell’incidenza della carie tra il 30% e l’85%. E’ stato anche dimostrato che l’assunzione di xilitolo da parte della madre riduce la trasmissione al bambino dello Streptococcus mutans; un recente studio condotto dall’Università di Turku, in Finlandia, su madri di neonati che hanno consumato regolarmente chewing gum allo xilitolo per tutta la durata dello studio (da 3 mesi prima della nascita dei bambino fino a 24 mesi dopo), ha dimostrato che la presenza dello Streptococcus mutans e della placca nei loro bambini era di circa 3-5 volte inferiore rispetto ai figli delle madri che non avevano assunto xilitolo. Quindi, nelle situazioni in cui non è possibile utilizzare i tradizionali strumenti per l’igiene orale il chewing gum allo xilitolo rappresenta un prezioso ausilio e un efficace strumento dì prevenzione dell’insorgere della carie.